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Discorso, ahimè, attualissimo pronunciato da Sergio Marchionne nel 2014.

venerdì, 14 agosto 2020 | autore: Daniele Baglione
Sergio Marchionne

Pubblico un discorso attualissimo che il grande Sergio Marchionne pronunciò al Forum Ambrosetti di Cernobbio nel 2014, purtroppo ancora oggi le sue parole sono rimaste inascoltate e, soprattutto, inattuate:

“Si sono sentiti e letti fiumi di parole su politiche e modalità per far ripartire questo paese. Il riassunto di tutto questo è racchiuso in una poesia di Charles Osgood, un anchorman della Cbs America, che parafrasata racconta la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. “C’era un lavoro importante da fare e a Ognuno fu chiesto di farlo. Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece. Qualcuno si arrabbiò, perché era il lavoro di Ognuno. Ognuno pensò che Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno capì che Qualcuno non l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Qualcuno avrebbe potuto fare”.

Noi italiani siamo da sempre il paese dei Gattopardi. A parole vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com’è. Oggi, in questa sala, possiamo raccontarci ancora una volta quanto le riforme siano cruciali per uscire da questa situazione di stallo. E anch’io, come mi è stato chiesto, farò la mia parte e mi concentrerò su alcune poche cose che, a mio parere, sono le più importanti.

Ma il punto è che se non cambiamo atteggiamento, tutti quanti – collettivamente e ognuno come singolo – andremo sempre più in basso. Ognuno di noi, ogni individuo, deve farsi un esame di coscienza e decidere qual è il tipo di cambiamento che vuole: il proprio o quello degli altri. Nel farlo, dobbiamo essere consapevoli che il primo richiede sacrifici, coraggio e senso di responsabilità nel costruire l’Italia che vogliamo. L’altro, invece, ci relega al ruolo di spettatori e condanna la società italiana e il futuro del paese a quello di vittima.

Vengo ora a ciò per cui sono stato invitato. Non sono certo io la persona che deve indicare l’agenda al governo. E so bene che le risorse oggi sono molto scarse.

I fronti su cui intervenire sono così tanti – giustizia, fisco, lavoro, Pubblica amministrazione, infrastrutture, costo del credito, corruzione, evasione, criminalità organizzata… – e gli interessi da toccare sono così vasti che stabilire un ordine di priorità diventa un “dilemma del prigioniero”.

Io mi limito a parlarvi da uno che fa impresa e che vede due problemi di fondo: la mancanza di occupazione e l’assenza di capitali, di gente che è disposta a investire, soprattutto dall’estero.

E’ una situazione che si è prodotta a causa di tre fattori fondamentali, con cui mi sono scontrato negli ultimi dieci anni di gestione quotidiana delle nostre aziende: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto e la burocrazia.

Sergio Marchionne

Sergio Marchionne

Purtroppo in Italia c’è la tendenza a discutere delle questioni economiche, specialmente quelle sul mercato del lavoro, in termini ideologici.

E’ una vecchia concezione dei rapporti di forza che nell’ultimo mezzo secolo ha bloccato il paese su posizioni prive di sostanza e ci ha portati a risultati opposti a quelli che si voleva perseguire. C’è una ragione molto semplice per cui ci troviamo a questo punto.

Il problema sta nel modo in cui si concepisce il rapporto tra capitale e collettività; tra stato, aziende e cittadini. Il sistema italiano ha spostato la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini sulle aziende.

 

Nel momento in cui una persona acquisisce un posto di lavoro, l’azienda diventa l’ente responsabile per il suo lavoro, per la sua famiglia, per il suo futuro. E ne assume anche una responsabilità morale, perché s’instaura una relazione che solo in casi eccezionali può terminare. Per quanto si dica, sono le aziende stesse che, in cicli economici normali, versano all’Inps i contributi per garantire la cassa integrazione ai lavoratori italiani.

Lo stato, invece che riprendersi in carico la gestione dei suoi cittadini – in caso di cambiamenti dei mercati che sono duraturi, permanenti e irreversibili — fa di tutto per rendere quel rapporto con l’azienda il più stretto e vincolante possibile. Lo fa durare a vita per legge, o perlomeno fino alla pensione. E’ una concezione a dir poco anomala, che non esiste più in nessun paese civile del mondo.

E’ un concetto da economia socialista, che ricorda tempi passati. Dove faceva poca differenza se la gestione dei cittadini era nelle mani dirette dello stato o di imprese pubbliche o parastatali. E’ un concetto che privilegia il posto di lavoro in sé, a scapito della crescita e della mobilità sociale, della formazione e dello sviluppo dei cittadini. E’ una visione dell’economia statica, che non tutela davvero l’occupazione né i salari. Rende solo le imprese più deboli, perché blocca i processi di cambiamento e di rinascita che si generano naturalmente dal funzionamento dei mercati liberi. Non ci sono omologhi in Europa.

Il Global Competitiveness Report, appena pubblicato dal World Economic Forum, che mette a confronto 144 paesi nel mondo, mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136esimo posto, ultima degli stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo la facilità d’ingresso e uscita dal mercato del lavoro, ci spetta addirittura la posizione 141. Per carità, sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. Questa impostazione culturale ha prodotto l’ostilità che continua a esistere oggi in Italia verso le imprese. Ed è la madre di un percorso storico conflittuale che ha dilaniato il nostro paese per lungo tempo. E che, purtroppo, in parte della società sopravvive ancora e vede contrapposti “capitale e lavoro”, “padroni e operai”, “sfruttati e sfruttatori”. Una tassa come l’Irap, che tutti a parole considerano iniqua, ma continua ad esistere, è figlia di questa cultura anti industriale. Non si spiega altrimenti perché, in momenti di disoccupazione drammatica, s’imponga sulle aziende una tassa che cresce in proporzione al numero di persone impiegate. Questa cultura è anche la ragione per cui quando un’attività in perdita – senza alcuna prospettiva di ripresa – chiude, il sistema italiano è incapace di reagire e lo vive come un atto di violenza gratuito e immotivato. Mi chiedo quando capiremo, anche in Italia, che la sfida non è tra imprese e lavoratori; ma è tra noi, tutti insieme, e il resto del mondo, che rappresenta la vera concorrenza. Mi chiedo quando il paese capirà che noi non vogliamo lavoratori “usa e getta”, ma persone coinvolte, che si sentano parte di un progetto per il futuro. Mi chiedo anche quando ci renderemo conto che solo un’economia di mercato può creare le condizioni ideali alla crescita, alla competizione e all’innovazione.

In un paese che riconosce e promuove il libero mercato, ognuno deve fare il proprio lavoro. Il compito delle imprese è quello di investire e di rischiare, di crescere e di rafforzarsi nel mondo, di garantire un ambiente dinamico e aperto al futuro.

Lo stato deve fare lo stato. Né scaricare sulle imprese la gestione della vita lavorativa dei suoi cittadini né semplicemente assisterli. Persino quella che alcuni considerano l’unica vera riforma varata finora, e che ha messo in sicurezza il nostro sistema pensionistico, di fatto ha provveduto, almeno temporaneamente, a sollevare le casse dello stato ma ha spostato il problema su aziende e cittadini. E ovviamente non è servita a far ripartire l’economia.

Il nostro auspicio è che il Jobs Act, che è ancora tutto da definire, riporti in equilibrio il rapporto tra stato, azienda e dipendenti. E’ chiaro che il nostro Welfare State, un sistema pensato per aiutare i più deboli oggi ha perso la sua efficacia. Non ci ha protetti dalla crisi e non ha la capacità di gestire i cambiamenti che avvengono alla velocità della luce in un mondo che adesso è completamente piatto e in cui la concorrenza è spietata ed efficace.

La cosa paradossale è che quelle regole che erano state pensate per difendere il lavoro ci hanno portati a un punto in cui la cosa più difficile è creare lavoro. Bisogna trovare una strada diversa che porti a risultati migliori. L’obiettivo è allineare il nostro ordinamento a quello della maggior parte d’Europa, ispirandoci ai principi della flexicurity.

Mi rendo conto che è impossibile, per l’Italia, con il suo passato, adottare un sistema anglosassone. Sarebbe visto come un attacco ai valori culturali del paese. Così com’è inutile innamorarsi del sistema tedesco, che ha radici storiche non replicabili altrove, o del sistema di chiunque altro. L’Italia può e deve trovare la propria strada, il giusto punto di equilibrio tra esigenze di flessibilità e senso di sicurezza per i lavoratori. Possiamo guardare a quello che è stato fatto altrove, imparare dalle loro esperienze, ma poi dobbiamo costruire la nostra realtà, senza copiare da nessuno. E soprattutto senza farlo al ribasso. Un’intera gamma di misure è potenzialmente disponibile. Tutte quante sono perfettamente compatibili con una società aperta, libera e in libero mercato.

Penso a politiche attive che aiutino i lavoratori ad affrontare i cambiamenti del mercato, i periodi di disoccupazione temporanea e la transizione verso un nuovo lavoro. Penso a iniziative di formazione adeguate, che coinvolgano anche le aziende, per assicurare alle persone una crescita lavorativa e sociale continua. E penso a sistemi di protezione sociale moderni, che forniscano un adeguato sostegno al reddito e agevolino la mobilità sul mercato del lavoro. Dobbiamo smettere di pensare alle misure di welfare come a un mezzo per riparare a posteriori i danni, e trasformarle in modo che siano in grado di offrire alle persone una sicurezza attiva contro i rischi.

L’altro tema che vorrei affrontare è la certezza del diritto, specialmente in materia di lavoro. Non entro in ragionamenti teorici sulla legislazione italiana. Vi porto la nostra esperienza, pura e semplice. Come saprete, alla fine del 2011, la Fiat ha sottoscritto un contratto collettivo specifico di lavoro, che la Fiom non ha firmato. In base a una norma di legge, di una chiarezza cristallina – e cioè l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori – chi non firma il contratto non ha diritto a rappresentanze sindacali in azienda. Noi abbiamo applicato la legge, in modo coerente e rigoroso. Ci siamo visti intentare 62 cause. 46 si sono chiuse a nostro favore e 7 contro. Altre 7 sono state rinviate alla Corte Costituzionale. Due sono rimaste in sospeso.

Dopo un anno e mezzo, la Corte Costituzionale ha ribaltato l’indirizzo che lei stessa aveva espresso, in numerose occasioni, per 17 anni. Dichiarando l’articolo 19 non conforme alla Costituzione italiana, ha cancellato uno dei pochi punti di riferimento certi. Ad oggi, non esiste alcun parametro affidabile per stabilire quale sindacato è rappresentativo, e ha quindi titolo per negoziare con l’impresa, e quale invece no. Vi chiedo se questo è un modo per dare certezze a un’azienda.

La soluzione non è roba da marziani. Dobbiamo semplificare l’apparato normativo esistente. E non cumulando leggi su leggi, come si è fatto negli ultimi anni. Serve poi una regola chiara sulla rappresentanza dei lavoratori. Gli accordi stipulati dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori devono essere efficaci nei confronti di tutta la comunità aziendale e rispettati da tutti. In un momento delicato come questo, non possiamo più difendere un sistema di tirannia della minoranza, giocato peraltro sulla pelle delle persone da tutelare.

C’è ancora un altro elemento-chiave su cui dobbiamo intervenire per recuperare la fiducia e la credibilità internazionale. Ed è l’eccesso di burocrazia. La classifica della Banca mondiale sulle procedure burocratiche e amministrative connesse all’attività d’impresa ci vede al 65esimo posto, fra gli ultimi dei paesi Ocse. Secondo il report, è più facile fare impresa in Botswana, in Ruanda, in Armenia e pure nelle isole Tonga. In Italia, ci vogliono 234 giorni per ottenere un permesso di costruzione. La media europea è sotto i cento giorni. Presentare la dichiarazione dei redditi richiede 250 ore rispetto alle circa 50 ore dei paesi più virtuosi. Il costo degli adempimenti amministrativi per le imprese italiane supera i 27 miliardi l’anno. Avviarne una nuova costa 2.100 euro, contro una media europea di 370 euro. Perfino l’allaccio a una rete elettrica per un’impresa è complicato: ci vogliono 5 procedure per 124 ore di lavoro. E la burocrazia statale ha introdotto 629 nuove norme fiscali negli ultimi sei anni. Con l’obiettivo di semplificare, ovviamente. La burocrazia non solo costa cara, ma uccide lo spirito d’impresa. Inoltre, il più delle volte finisce per proteggere aziende inefficienti, che scaricano i maggiori costi sui consumatori. Per questo, la riforma della Pubblica amministrazione dovrebbe essere ispirata ai criteri della semplicità, della chiarezza e del pragmatismo.

La Fiat, in questi anni – come del resto tutte le imprese italiane – ha provato più volte, sulla propria pelle, gli effetti negativi di un sistema lento e arretrato, di una burocrazia opaca e contorta, di una giustizia aleatoria. Da sei anni ormai stiamo gestendo una realtà italiana in perdita, ma, nonostante ciò, abbiamo deciso di non chiudere nessuno stabilimento, di non licenziare nessuno, di continuare a investire e di restare comunque in Italia. Le ragioni per cui lo stiamo facendo sono due.

Primo, perché siamo fondamentalmente italiani. Abbiamo una grande storia alle spalle, una tradizione secolare che è parte della nostra natura e che è importante proteggere. Su questa eccellenza, ad esempio, abbiamo centrato la nostra nuova strategia, per valorizzare l’alto di gamma con i marchi Alfa Romeo e Maserati, e per trasformare i nostri impianti italiani in una base di produzione per le esportazioni sui mercati di tutto il mondo.

La seconda ragione è che non si può aspettare all’infinito che sia il sistema politico a muoversi. In tutti questi anni, ho visto cambiare poco o nulla nel sistema-paese. E’ da tempo, ad esempio, che Fiat solleva il problema dell’export e la necessità di facilitare i processi per le esportazioni. Non è successo nulla, finora. Quello che ho detto al Meeting di Rimini, la scorsa settimana, invitando tutti a fare il primo passo, è esattamente ciò che ha fatto la Fiat. Ci siamo mossi da soli. Abbiamo fatto scelte coraggiose e di rottura con il passato per compensare in parte i gap strutturali del paese – compreso uscire da Confindustria – per riacquistare una libertà di contrattazione con i nostri collaboratori. Se fossimo rimasti fermi saremmo probabilmente falliti. O, nella migliore delle ipotesi, avremmo dovuto prendere decisioni impopolari.

Noi, invece, abbiamo cercato da soli di introdurre elementi di modernità nel contesto in cui operiamo. Ma il nostro cerchio d’azione è comunque limitato. E mi rendo conto che non si può chiedere a tutti di fare la stessa cosa, o perlomeno nella stessa misura.

Concludo con un consiglio – non richiesto – e con un invito. I “Mille Giorni” sono appena iniziati. Sarà la prova dei fatti a darne un giudizio. Ci troviamo però con un governo giovane e con un gruppo di persone determinate a scardinare il sistema. Il consiglio che posso dare loro è questo: dalla vostra “to-do-list”, che sappiamo essere lunghissima, scegliete tre cose, realizzatele, e poi passate alle tre successive. L’invito, invece, è quello di dimagrire, di asciugare la presenza dello stato nella vita della gente e delle imprese. Il futuro dell’Italia dipende molto più dalla capacità di rimuovere gli ostacoli dai binari più che da ulteriori ingerenze.

Le opportunità e il lavoro si creano solo se i meccanismi economici sono efficienti e gli stimoli del mercato sono forti. Nel racconto “I Cosacchi”, sulla ricerca della verità e il senso della vita, Tolstoj scrive: “Come sempre suole accadere in un lungo viaggio, alle prime due o tre stazioni l’immaginazione resta ferma nel luogo da dove sei partito, e poi d’un tratto, col primo mattino incontrato per via, si volge verso la meta del viaggio e ormai costruisce là i castelli dell’avvenire”. L’Italia è stata ferma in quella seconda stazione per tanto, troppo tempo. Con questo, auguro a me – a tutti noi – che l’Italia lasci finalmente la stazione di Tolstoj e inizi davvero il suo viaggio verso la modernità e la costruzione di un paese per giovani.

Grazie a tutti e buon lavoro”.



"Abbiamo fatto molto ma i sogni da realizzare per la nostra città sono ancora tanti"

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